Donne Dell'Era Post-Umana Nell'Arte di Eva Rorandelli

di Elisabetta Bovo

Sembrano donne algide e remote, nella loro bellezza senza tempo, nei loro volti lontanida ogni emozione, non toccati da rughe, né da ombre, né da un tentativo di sorriso. In realtà, come sempre, non è possibile scindere la figura dal contesto, e anche nel caso delle figure “congegnate” (costruite digitalmente e poi dipinte) dall’artista fiorentina Eva Rorandelli, bisogna allargare lo sguardo sull’insieme e analizzare anche lo sfondo: un mosaico-collage ottenuto con immagini di reliquie tecnologiche, cavi e resti di oggetti elettronici, un mondo di strumenti di per sè minimi eppure caratterizzanti il mondo delle attuali tecnologie. Forse, allora, le bellissime sono robot, o androidi, corpi post-umani, con ingranaggi e bytes al posto di cellule e vasi sanguigni.

Non è tanto una critica alla posizione della donna in questa contemporaneità che tutto e tutti trasforma in oggetti senz’anima e dal valore limitato, ma è piuttosto—quella messa in atto dall’arte della Rorandelli nel suo insieme (e mi riferisco alle opere della serie Post bodies. Chaotic Presences, presentate nella mostra bolognese Tra Immaginazione e Futuro che si è tenuta tra il dicembre 2009 e questo gennaio 2010 nella Galleria 9 Colonne, ma anche alle precedenti performances dell’artista, come quella bresciana dal titolo “reaching for the sky,” o a quelle con le “welded masks,” o ai video ove la protagonista è lei come donna-bozzolo-sirena che s’avviluppa nella sua stessa coda—un problematizzare la pervasività della tecnica nel nostro quotidiano.

La sua è una messa in questione della signoria della tecnica nel mondo attuale: un dominio, a cui l’uomo, che pure è l’artefice della tecnica, non può sottrarsi. Uno strapotere della tecnologia che da strumento è diventata padrona del corso della civiltà occidentale e, dunque, nell’ottica globalizzata, del mondo tout-court. Un’onnipresenza dominante che ormai da anni il pensiero filosofico va denunciando e indagando, e che non ha lasciato indenne neanche l’uomo in ciò che più evidentemente gli appartiene: il suo stesso corpo.

“Post bodies”: il corpo dopo il corpo, dunque, quasi a sancire una morte della corporeità come l’abbiamo finora intesa, ed ecco allora che le donne post-umane della Rorandelli si fondono e con-fondono con la “schermata” che mentre funge loro da fondale le invade, le avvolge, le incatena come moderni Laocoonte, togliendo confine ai loro corpi fisici, smaterializzandone le forme in geometrie concentriche che rinviano—più che a sfondi di matrice klimtiana, come apparirebbe ad un primo sguardo—a flussi e processi indagati o messi in atto dalle tecnologie e dai loro invasivi strumenti che guardano dentro ogni dettaglio, biologico e non,della realtà fisico-naturale, compreso l’uomo.

La tecnica distrugge la soglia di un mondo che il singolo individuo considera solo suo, che è quello del proprio corpo, che la coscienza del soggetto, pur cogliendolo con lo sguardo come oggetto tra gli altri nel mondo, estrae ed astrae dal resto della natura per farne il guscio visibile dell’io.

Ora, non solo la tecnica riporta l’uomo alla sua animalità, alla sua appartenenza al mondo della natura nel suo insieme, ma lo trasforma in qualcosa di tecnico a sua volta, con strumenti e protesi che sempre più sostituiscono i “dispositivi” umani insufficienti per natura a dargli la signoria sulla natura necessaria per quello stile di vita che oggi noi tutti occidentali condividiamo.

Donne-robot, dunque, o vere epropie avatar, le donne impassibili della Rorandelli, creature rese aliene dalla tecnica, pur nella permanenza di sembianze somatiche umane, come in un film di ordinaria fantascienza? Le sue figure che emergono senza spessore da un fondo più accattivante, pieno di colori accesi e rutilanti, che inquietante, l’inquietudine ce l’hanno dentro, appena nascosta dietro quei volti pallidi, ridotti alla distesa vuota d’una stoffa opaca in cui la traccia dei lineamenti s’è quasi persa e la possibilità d’espressione è andata perduta, soffocata tra le labbra, sigillate o semichiuse. Celata dietro quelle pose artefatte e standardizzate che riducono la donna a un mero involucro erotico. E tutte sono avvolte nel silenzio mentre la tecnologia da sfondo si fa mostro che le divora, quasi che la parola (logos, discorso, espressione del logos, ragione) sia l’ultima arma contro-tecnologica che rimane, e che la tecnica allontana, esorcizza, a colpi d’inclusioni robotiche nell’umano, a colpi di strumenti tecnologici sempre più raffinati di cui la moda e il sistema socio-economico nel suo insieme ci convincono di non poter più fare a meno.

Ecco allora che appare prometeica e un pò donchisciottesca la resistenza di una delle protagoniste post-umane delle sue tele: la ragazza di My personality is my own, che—come dice il titolo—pare trovare rifugio in se stessa, nella propria soggettività, come se questo bastasse a tagliare le catene che la avvincono al tecnologico. Come nel film “La morte ti fa bella” con Meryl Streep e Goldie Hawn, la ricerca di una bellezza e giovinezza senza fine e senza limiti fanno della donna un oggetto privilegiato della chirurgia estetica, ovvero un soggetto tecnologico (nel senso etimologico di sub-jectum, gettato sotto, sottomesso) per eccellenza, una vittima dell’imperante tecnologia, senza via di scampo.